sabato 30 giugno 2012

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Eh, la Spagna. Quel loro aver buttato nel cesso clero e duce, quel loro saper vivere, quella lingua che tutte le volte sembra che l’hai dimenticata, poi ti accorgi che visto che non l’hai mai avuta è un po’ difficile perderla, e tiri fuori le parole più difficili da chissà quale cassetto del cervello. Lanzarote: sottotitolo «e io che mi pensavo che fosse tutto un ciabattare mare-spiaggia-mare». Cosa mi è rimasto? Vediamo. I colori: una sequenza pressoché ininterrotta di rosso e nero e bianco e grigio macchiati di verde. Il nostro grande appartamento pagato quasi un cazzo. Lo spumante a colazione. L’uomo con la birra in mano, sempre. Il sosia di Peter Griffin. Le opere della sala principale del museo d’arte contemporanea di Arrecife e la sua guida surreale. La sciatteria del ristorante stile James Bond del medesimo museo. Famara che ti fa venir voglia di saper surfare. I cinque chilometri di strada sterrata per andare a Papagayo. Charco de Palo con il suo naturismo totalmente libero da dogmi. Il panorama lunare di Timanfaya, ancora più spettacolare in quella perfetta giornata uggiosa. La spiaggetta nel centro di Playa Blanca. Gli arredi della Fondazione César Manrique. Le chiese chiuse come le cosce tese quando ti vuoi confessare (non era così?). La degustazione di vini lungo La Geria. Il pesce, il mojo verde, l’aglio in ogni dove. Lo spettacolare ristorantino fighettino in uno dei posti più sfigati dell’isola. Il ronmiel, che sarà anche dolce ma freddo ha il suo perché. La partita di chissacchì con chissacché che stava lì in sottofondo mentre noi facevamo qualcosa di molto più vero, più bello, più importante.


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