mercoledì 24 giugno 2015

bræðra hnífa


Ma quante lingue conosco da quando ho scoperto Google Translate? Anche in questo caso, si apprezzano commenti autoctoni, ovvero, in questo caso, islandesi. Ve lo ricordate Nord? Le atmosfere di Hrútar (titolo internazionale Rams, ovvero Montoni, anche questo già acquistato in Italia e di prossima - salcazzo quando - uscita) sono un po’ simili, ma si ride meno. Vincitore della sezione Un certain regard di Cannes, visto a Milano nella provvida rassegna della scorsa settimana, il film di Grímur Hákonarson è la storia di due fratelli pastori che non si parlano da anni ma che ricominciano a interagire fra loro nel momento in cui uno dei due capisce di averla veramente fatta fuori dal vaso. Neve, alcool, paesaggi desolati, un goccio di Coen sciolto nell’umorismo scandinavo. Non so se meritasse il premio, di sicuro merita l’ora e mezza di visione.

martedì 23 giugno 2015

arrivano i buoni


Vabbè, ve lo devo dire: speravo che qualcuno si incuriosisse del titolo cinese del post precedente. Che poi, chissà se ho scritto davvero quello che volevo scrivere. Conoscete un cinese che conosce il cinese? Potete mostrarglielo? Grazie. Tra i film di Cannes a Milano c’era anche A perfect day, che ho visto più che altro per curiosità, aspettandomi non molto. Lo spagnolo Fernando León de Aranoa (I lunedì al sole, Princesas) stavolta dirige un cast internazionale (ci sono un americano, una russa, un portoricano, uno spagnolo, ché detto così sembra una barzelletta) per quello che, esagerando, si può definire un sorta di M.A.S.H. delle associazioni umanitarie: infatti, tra una bevuta, uno scazzo e una scopata, scontrandosi con l’ottusità della guerra e della burocrazia, Benicio Del Toro, Tim Robbins, Mélanie Thierry, Sergi López e Olga Kurylenko cercano di dare una mano in qualche parte devastata dei Balcani. Dramma e commedia si alternano con un buon ritmo e senza buonismi. Forse però, paradossalmente, il limite è proprio nel ritmo: non c’è tempo (o non si vuole dar tempo) per le lacrime, e la risata a tratti diventa liberatoria, come nel beffardo finale. Un film imperfetto ma interessante. In Italia distribuisce Teodora, ma non si sa ancora quando. Da vedere in originale con i sottotitoli, perché ciascuno, almeno per un po’, parla la sua lingua.

domenica 21 giugno 2015

愛的後果


Liangzi, Tao e Jinsheng sono amici. Il povero Liangzi ama Tao che però sposa il ricco e coglione Jinsheng. Se questo fosse stato il nocciolo e non il punto di partenza di Shan he gu ren (titolo internazionale Mountains may depart), probabilmente non ne starei neanche a parlare. Il lungo prologo, ambientato alla vigilia del 2000, sembra un po’ un melodrammone neorealista trapiantato in Cina; poi però, dopo quasi tre quarti d’ora partono i titoli di testa (eh già!) e il film cambia musica (più o meno, ché il leit motiv è sempre Go west nella versione dei Pet Shop Boys). Scopriamo così che, in realtà, le vere protagoniste della pellicola di Jia Zhangke sono Tao e la Cina attraverso 25 anni di storia (sì, finiamo in un futuro che è poi abbastanza presente…): di fianco, addosso e tutt’intorno al bildungsroman di Tao, scorrono i profondi cambiamenti della società cinese con le sue mille contraddizioni. Certo, alcune idee lasciano il tempo che trovano (il taglio dell’immagine che man mano che si procede si allarga, il nome del figlio, il cane che doveva vivere solo 15 anni, la canzone che apre e chiude il film…). Inoltre il capitolo finale, con quella punta di edipo moralista, è un po’ irritante. Tuttavia alcune trovate sono meravigliose (il padre che voleva fa’ l’americano e si ritrova a non capire il figlio che parla solo inglese) e la storia trabocca di spunti che magari restano lì, e sedimentano, e tornano quando meno te lo aspetti, come ogni buon film dovrebbe fare. In Italia distribuisce Bim, ma non si sa ancora quando.


Bene, sappiate che questo post contribuisce al China day. Insomma, finalmente, dopo mesi, sono tornato a scrivere insieme al “solito” gruppo di amici di cinema. Ecco, di seguito, i loro contributi:

Storia di fantasmi cinesi (Siu-Tung Ching, 1987) sul Bollalmanacco di Cinema
The Killer (John Woo, 1989) su Director's Cult
Lanterne rosse (Yimou Zhang, 1991) su Scrivenny 2.0
I love Beijing (Ning Ying, 2000) su The Obsidian Mirror 
Infernal Affairs (Wai-Keung Lau e Alan Mak, 2002) su Non c’è paragone
Life without principle (Johnnie To, 2011) su Solaris
Il tocco del peccato (Zhangke Jia, 2013) su White Russian
Closed Doors Village (Xing Bo, 2014) su Mari's Red Room

venerdì 19 giugno 2015

pastorale francese (ovvero john c. reilly is the new james franco)


«Scusi, che rivista è?». La ragazza ha gambe interminabili e pantaloncini minuscoli, capelli corti e celestini e, se non fosse che se sta qua dentro è maggiorenne, la prenderei per una di 15 anni. Sto leggendo un articolo di Internazionale sulla cultura pop giapponese, onestamente una robetta, ma «Sa, quello nella foto è il mio manga preferito!». Le cedo la rivista, tanto l’ho già letta tutta, si spengono le luci, le gambe infinite si arrampicano sulla poltrona, cerco di non distrarmi più di tanto. Beh, Les cowboys, opera prima dello sceneggiatore Thomas Bidegain (ha scritto un sacco di robe belle, buttate un occhio su Imdb) in effetti non permette grandi distrazioni. Sì, forse come ha detto qualcuno del pubblico, in certi momenti il regista «la fa facile», ma la disperata ricerca, nell’arco di una ventina d’anni, di una ragazza scappata di casa per vivere con una specie di terrorista musulmano, prima da parte del padre, poi del fratello, ha momenti davvero notevoli. E, soprattutto, fa incazzare e pone di fronte a interrogativi mica da ridere. L’ormai onnipresente John C. Reilly si ritaglia il ruolo di un americano molto traffichino. Ah, il titolo del film gioca sul fatto che la famiglia in questione sia di vaccari patiti del country. Ma quanto è bella Tennessee Waltz? Peccato che nella colonna sonora non ci sia la versione di Leonard Cohen.

giovedì 18 giugno 2015

dio li fa e poi (qualcuno) li accoppia


Ma che meraviglia è il primo film “internazionale” di Yorgos Lanthimos? I rischi c’erano, i precedenti non mancano, l’europeo che prende in mano attori americani e… insomma, se non sei Sorrentino di solito fai una mezza cacata. E invece The lobster è un filmone. Con una prima parte che fa molto Buñuel, un finale forse aperto (ma di quelli che mi piacciono) e una parte centrale meno convincente ma bella lo stesso. In un presente distopico in cui tutti devono essere accoppiati (ma niente mezze misure, né bisex né scarpe 44 e ½) oppure vengono trasformati in animali, lo sfigatissimo Colin Farrell si rinchiude in un albergo insieme ad altri personaggi micidiali (John C. Reilly con la zeppola, per dirne uno) per trovare l’anima gemella. Cattivissimo fino in fondo, con dialoghi che non perdonano nella loro schiacciante e volutamente desolante banalità, un paio di scene decisamente memorabili (l'oliva e, ahia, il cane!), Rachel Weisz e Léa Seydoux che in un contesto del genere non potrebbero fare sesso neanche se girassero nude. Toni molto più leggeri dei film precedenti del regista greco, ma non per questo una pellicola meno riuscita. Premio della Giuria a Cannes più che meritato, e si capisce perché sia piaciuto ai Coen.

P.S.: non c’entra un cazzo ma oggi esce Infinitely polar bear. Che i soliti idioti titolisti italiani hanno ribattezzato Teneramente folle. Fidatevi, è una commedia deliziosa. Parola di poison («deliziosa») e anche mia.

venerdì 12 giugno 2015

trovo titoli bellissimi per post che non riesco a scrivere


Ciao, sono Dantès e ho il blocco dello scrittore. Più o meno, sennò col cazzo che stareste leggendo questo post. Insomma, da stasera vado via tre giorni a seguire la retrospettiva di Cannes a Milano. Tanto piove. E al mare ci si va la settimana dopo. Nel frattempo mi verrebbe voglia di divorziare da fratello e sorelle, ma pare che non si possa. E ho un nipote che va a lavorare all'estero di cui sono molto orgoglioso. Ho visto come sempre un fottìo di film, ma vi parlo brevemente di due. Uno è Leoni, scacatissimo (purtroppo) film italiano con Neri Marcorè di cui mi piacerebbe tanto un’opinione della mitica middle. Miiiiddle, se ci sei, batti un colpo (ehm, no, quello è l’altro film). Vabbè, insomma, ero curioso, se non altro per l’ambientazione (il Nordest in crisi) e l’argomento che poteva risultare “scomodo” (come avrebbe preso questo paese di merda la questione delle croci?). Sorpresa: il film mi è piaciuto. È parecchio divertente, ed è una commedia all'italiana abbastanza old style. Compreso l’happy end bastardo, credibile come una moneta da tre euro ma sanamente cattivo. Non so, ma ho l’impressione che Steno, Monicelli, forse anche Germi, avrebbero apprezzato. Ah, Treviso è tanto bella, peccato esistano i trevigiani. Poi, con ritardo clamoroso, ho visto The innkeepers di Ti West. Che io mica lo sapevo chi era. E, a dirla tutta, non lo so neanche adesso. Bello eh! Persino divertente. Almeno fino a tre quarti, forse anche più. Il problema è un finale che a dirgli banale gli fai un complimento. Un po' come il Babadook (che arriva fra qualche settimana anche al cinema, per quei due o tre che non l'hanno ancora visto). E sì che sembrava un film de paura finalmente diverso. Ritenta, sarai più fortunato. E porta con te di nuovo Kelly McGillis, nostalgia canaglia!

giovedì 4 giugno 2015

when a dumb man cries


Partiamo dal finale? Sì, insomma, a me ha ricordato la sequenza iniziale di Melancholia, ma con la voglia di mostrare l’opposto. Nel film di Von Trier era l’annuncio di qualcosa di impossibile, in Forza maggiore è una sorta di happy end: la vita è una merda, ma non possiamo farci niente e tiremm innanz insieme, nonostante tutto. Mi aspettavo di più dal film di Ruben Östlund che mi ero precocemente pentito di aver zompato al Torino Film Festival causa difficoltà d’incastri. Secondo Fofi è una specie di Bergman mainstream: io però, a parte la comune origine scandinava dei due registi, non ci ho visto molto di più. Ed è un peccato, perché il film comincia bene, benissimo: tutta la prima parte, a cominciare dalle foto, è praticamente perfetta, annuncia bene quello che si aspetta. E quella montagna, quella neve, quella un po’ troppa natura che il giorno dopo avrei trovato in un film che è invece una perla, Youth (ne parlerò, sì), ci stava alla perfezione. Uh, e ci si diverte, eh, c’è la giusta dose di cattiveria e di ironia, la critica brutale al concetto di coppia o di famiglia, l’analisi dell’ipocrisia (toh, come Youth, ma una scalinata più giù). Poi però il regista ambisce all’ammicco, e si vede, soprattutto attraverso i personaggi secondari. E il protagonista a un certo punto crolla e piange sullo schermo. Tanto. Beh, di solito è il contrario. Ed è un uomo con le palle. Io.